Dicembre è arrivato e con lui l’immancabile sfilata di spot natalizi che tentano di conquistare il nostro cuore e il nostro portafoglio. I brand lo sanno: la retorica natalizia del “a Natale siamo tutti più buoni” colpisce ogni anno. Ma non sempre queste pubblicità riescono a centrare l’obiettivo.
Funziona ancora? O siamo ormai immuni a questo carosello di emozioni preconfezionate?
Non è un mistero che il marketing emozionale abbia un impatto significativo sul pubblico.
C’è chi non si è ancora ripreso dallo spot della catena di supermercati Edeka e chi mente.
La pubblicità, diventata virale nel 2015, racconta la storia di un anziano che inscena la propria morte per riunire la famiglia durante il periodo natalizio.
Il video ha suscitato emozioni intense, ricevendo milioni di visualizzazioni e un’enorme attenzione mediatica, portando la catena ad un incremento delle vendite e alla crescita della notorietà del marchio.
Il marketing emozionale ha i suoi meriti: uno studio rivela che il 70% delle persone ricorda meglio le pubblicità che evocano emozioni rispetto a quelle più razionali. Non solo: secondo uno studio condotto da Nielsen, le campagne emozionali incrementano le vendite del 23% rispetto a quelle basate su argomentazioni pratiche. Questo perché il cervello umano elabora le informazioni emotive il 20% più rapidamente di quelle razionali. In altre parole, ci innamoriamo prima di un’emozione che di un articolo o di uno sconto.
Ma se l’emotività può essere una strategia potente, spingere troppo su questo pedale rischia di far storcere il naso. Può risultare fastidioso, soprattutto quando il pubblico percepisce che dietro alle lacrime c’è solo una strategia di vendita. È come quando un vecchio amico si fa risentire, ci liscia il pelo per qualche giorno e poi all’improvviso ci propina i prodotti di un’azienda a schema piramidale. La cosiddetta “violenza emotiva“, quel senso di costrizione a commuoversi, rischia di farci cambiare canale prima ancora che il logo del brand appaia sullo schermo.
Non tutti gli spot emozionali funzionano. Alcuni riescono a toccare corde profonde, altri si perdono in cliché o scivolano in un’esagerazione melodrammatica. Solo il 15% dei consumatori ritiene che i brand siano davvero bravi a creare legami emotivi autentici. Gli altri? Probabilmente si sentono manipolati.
Per evitare errori, molte aziende stanno investendo in tecnologie avanzate per analizzare le reazioni del pubblico. Strumenti come il facial coding (che interpreta le micro-espressioni facciali), l’eye tracking (che analizza dove cade lo sguardo), EEG e fMRI (che monitorano l’attività cerebrale) sono utilizzati per creare campagne più mirate.
Tuttavia, queste tecnologie non bastano da sole. La vera chiave è lo storytelling: raccontare storie autentiche che risuonino con le esperienze del pubblico. Quando lo storytelling è efficace, non solo migliora il brand recall, ma crea una connessione profonda che dura nel tempo.
Secondo una ricerca di Capgemini, in Italia, la connessione emotiva con i brand è particolarmente forte: il 65% degli italiani dichiara di avere un legame emotivo con almeno un marchio, molto più della media globale. Per questi consumatori, l’emozione è più importante della semplice soddisfazione: uno studio dimostra che un cliente emotivamente connesso spende fino al doppio rispetto a uno solo “soddisfatto”. E c’è di più: l’81% di loro è pronto a raccomandare il brand preferito, trasformandosi in un ambasciatore gratuito.
Quest’anno, la televisione nazionale sembra meno affollata da pubblicità strappalacrime rispetto al passato. Una scelta casuale o una strategia deliberata? Forse il rischio di saturare il pubblico ha spinto alcune aziende a ridurre il carico emotivo. Si alternano spot più (Vodafone) o meno (Intimissimi Uomo) spiritosi ad altri più ordinari (Pupa e Maina, per citarne alcuni).
Quindi, questi spot melensi, funzionano o no?
Dai dati pare di sì. Siamo critici ma non siamo del tutto immuni. Una storia ben raccontata, autentica e magari inaspettata, riesce ancora a toccarci. Vogliamo essere coinvolti, non manipolati. Vogliamo emozionarci ma senza sentirci obbligati. Ecco perché le campagne che funzionano davvero sono quelle che riescono a bilanciare creatività, sincerità e strategia.
Verso metà novembre, mentre compaiono i primi addobbi natalizi, ci armiamo di un certo temperamento necessario alla sopravvivenza. Veniamo bombardati da struggenti film e serie tv, messaggi di solidarietà e beneficienza, canzoni, spot commoventi e cerchiamo di trovare un equilibrio per rimanere emotivamente stabili. Per farlo, alle volte, alziamo un muro di cinismo e sospetto che ci protegge dai contenuti che non funzionano. Quelli forzati, che provano a emozionarci ma non riescono a smuovere nulla. Il merito è tanto della barriera quanto del malfunzionamento del contenuto stesso.
Perché poi, di fronte all’Amico Polpo Disney, le campanelline Lidl e il padre con gli AirPods di Apple, crolla tutto.
Lo sappiamo che ci vogliono vendere qualcosa, ma poco importa.
In fondo, a Natale siamo ancora disposti a lasciarci emozionare. Ma non per tutto e non da chiunque. I brand che lo capiscono avranno un posto speciale sotto il nostro albero – o meglio, nel nostro cuore. E noi nel loro fatturato.